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TRENTO: SCOPAZZI, UNA CRISI CHE POTREBBE SERVIRE

"La mela golden si ammala perché trattata vergognosamente ed eccessivamente" La “resa ad ettaro” è l’elemento primo di riferimento per ogni valutazione nella “lotta agli scopazzi”. Ogni altro aspetto che possa portare a soluzioni più equilibrate sembrerebbe improponibile per una Val di Non sull’autostrada dell’industrializzazione dell’agricoltura. La natura manda i suoi segnali che non vengono ascoltati. Questi sono i primi risultati della uniformazione della specie alle esigenze produttive. La mela golden si ammala perché trattata vergognosamente ed eccessivamente. Sono trattamenti che spesso indeboliscono le piante e semplificano l’ ecosistema di supporto. Lo stesso sta succedendo in altre zone del Trentino, nonostante tutti sappiano che le regole della natura vanno da un’altra parte.
E aumentano i trattamenti suggeriti agli agricoltori dai “tecnici” delle case farmaceutiche, dei commessi viaggiatori dei prodotti chimici, e con essi aumenta l’incertezza per il futuro. Un’altra osservazione. Le piante di melo tagliate e trattate, di solito con idrocarburi clorurati, non devono essere bruciate ma cippate e “compostate” (e poi “discaricate”) perché altrimenti emettono diossine a causa della fiamma fuori controllo. Questo lo afferma da anni il professor Morando Soffritti, direttore scientifico della Fondazione Ramazzini di Bologna. Sono in effetti rifiuti pericolosi speciali che devono seguire l’iter più appropriato di smaltimento. Altrimenti non ci si meravigli se i tumori e le allergie continueranno a colpire a tutti i livelli, con il Trentino ai vertici nazionali. Adriano Rizzoli, TRENTO

Da qualche tempo, meglio tardi che mai, anche San Michele inizia a fare qualcosa per gli Scopazzi, ma la dimensione dell’infezione si è ormai estesa a tal punto che non bastano solo i suggerimenti scientifici, occorre una politica mirata, drastica e precisa, perché è in pericolo la parte portante dell’agricoltura della Val di Non e del Trentino e perché, non casualmente, la “crisi” degli Scopazzi coincide con la “crisi” del mercato e dell’ immagine della mela. Non è questione di trovare la medicina “giusta” per guarire da un male passeggero, è tempo di rendersi conto che gli Scopazzi derivano da debolezze strutturali, tipiche di ogni monocultura e che la Val di Non si trova di fronte a una crisi di lungo periodo, risolvibile solo cambiando pratiche e comportamenti. La situazione è paragonabile a quella della filossera (più tardi il metanolo) per la vitivinicultura, e a mucca pazza. Vent’anni fa l’Esat aveva dato chiare indicazioni per limitare l’ indebolimento delle piante responsabile poi della diffusione del batterio, o virus, degli Scopazzi. Che a volte nei testi scientifici (San Michele) si legge “batterio” (aggredibile da sostanze antibiotiche), a volte (Gorizia) “virus”,che come ben noto non può essere vinto dalle medicine (come il raffreddore, o l’Aids) ma solo rafforzando gli anticorpi dell’organismo. Ebbene l’Esat aveva raccomandato di piantare le piante almeno un metro l’una dall’altra, con file di 4 metri, evitando la doppia fila, limitando la resa per ettaro, facendo riposare e ossigenare il terreno per un anno prima dei reimpianti.. Tutte indicazioni disattese, tanto che alla fine è stato disatteso anche l’ Esat, ora ridotto al parente povero di San Michele e sostituito di fatto nelle campagne dai promotori privati delle aziende chimiche, con i risultati che tutti vedono. Il problema maggiore, infatti, non sono solo gli Scopazzi, ma il depauperamento organolettico anche delle mele considerate pregiate. Di questo il consumatore si accorge. Acquistare un sacchetto di mele al supermercato significa troppo spesso portarsi in casa prodotti dal colore bellissimo, ma dal sapore di una rapa. Ci si casca una volta, poi non più e si va invece in Piazza Vicenza, a quel negozio che vende solo arance della Sicilia, sono buonissime e c’è sempre la fila. Se si entra in questa dimensione, allora gli Scopazzi sono una crisi che può essere salutare per il Trentino. Occorre estirpare, le piante, ma anche far riposare, ricostruire e riossigenare i terreni esausti dalla monocultura. Occorre reimpiantare ricomponendo le culture secondo la vocazione dei territori, non pur di produrre di più. Significa, nei reimpianti, ritornare a una maggior varietà produttiva, rilanciare le Renette, qualche varietà antica biologica negli appezzamenti più alti, tornare magari a qualche pera Kaiser o Buona Luigia, abbandonate solo perché i mercanti volevano specie che durassero di più in frigo, ma ora il discorso non regge sul mercato globale. Fermarsi fin tanto che si è in tempo, nella disperata corsa alle Fuji, la mela più diffusa al mondo, in Cina: che ci mettiamo a far concorrenza alla Cina? Certo che poche piante spuntano buoni prezzi, ma quando entreranno in produzione gli ettari sarà un flop. Come con le Gala. Non sarebbe magari il caso anche di disciplinare un po’ le produzioni? C’è poi da fare una politica seria sulle insuperabili Golden decadute (ma quelle piccole della Val di Sole sono ancora buonissime) e c’è magari da costruire un inceneritore a pirolisi, di poco impatto, per bruciare le cippature senza affumicare di diossine la valle. Così l’inceneritore potrà servire anche da “test” per altre realtà più complesse. Insomma se il Trentino è ancora in grado di elaborare una sua cultura dell’ autonomia ha davanti a sé un’avventura straordinaria da affrontare. Ma occorrerebbe una volontà politica lungimirante, un assessore che non pensasse solo al turismo, che si interessasse dell’agricoltura invece di ammettere (con onestà, c’è da riconoscerlo) di capirla poco. Trentino, 4 gennaio
mercoledì 5 gennaio 2005


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