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Dopo quella sull’acqua, una narrazione per l’energia.

DOVREMMO INTERROGARCI SULLE RAGIONI per cui l’attuale fase storica, contrariamente a quella che si sta chiudendo forse definitivamente con la fine del Novecento, comincia ad anteporre le questioni della vita a quelle dell’economia. Non ancora a livello delle scelte politiche, almeno della parte ricca e privilegiata del mondo, intenta a procrastinare quanto più possibile una improbabile dimensione della crescita, quanto nella coscienza diffusa dei movimenti e nella percezione ancora incerta ma allarmata delle popolazioni, alle prese con un mutamento imprevedibile e ostile del comportamento della natura. Un mutamento rilevabile, per la prima volta nella storia della civiltà, nello spazio e nel tempo della propria vita individuale.

Forse la messa in secondo piano dell’«homo economicus» proviene dalla constatazione che la questione della sopravvivenza e del futuro non sembrano più dipendere esclusivamente dai rapporti tra umani o dai conflitti redistributivi tra i soggetti e le classi sociali, quanto piuttosto dalla relazione tra l’intera umanità e l’ambiente naturale. Una sfida molto impegnativa per la nostra epoca, che ancora una volta sembra essere anticipata da eventi di massa grazie a cui la discontinuità e il cambiamento appaiono come autentiche urgenze, mentre la politica continua ad aggrapparsi irrealisticamente ad una continuità impossibile e irresponsabile. È come se, anche in sistemi democratici collaudati e di fronte ad un’attenzione intensa dell’opinione pubblica, la dimensione problematica del futuro fosse presente tra gli elettori e sfuggisse invece agli eletti, che trasgrediscono così, quasi senza rendersene conto, il loro mandato. Eppure, i momenti di rottura di questi ultimi dieci anni sono stati scanditi da manifestazioni di massa, del resto sempre criticate o addirittura criminalizzate dal potere, anche quando nella formazione della coscienza politica delle nuove generazioni hanno rappresentato esperienze discriminanti, di non ritorno. Momenti in cui il «contro» si è trasformato in «per». A livello internazionale Seattle, Porto Alegre, Belem, Mumbai, Bamako o Nairobi. Nel nostro paese Genova, come svolta contro la violenza autoritaria e per la generalizzazione della democrazia invece dell’oligarchia economica; Firenze, contro la guerra preventiva e per un’Europa di pace; la Val di Susa, contro la cancellazione del territorio e per la riscoperta di identità comunitarie solidali; Vicenza, contro l’esportazione della «civiltà» con le armi e per la messa a valore di una operosità pacifica, oltre che per l’indispensabilità, ai fini di una vita desiderabile, delle culture locali, della scoperta del paesaggio urbano e di una socialità, soprattutto nel nord ricco, piegata in tutti i suoi aspetti alla dimensione privatistica del mercato. Stare in relazione con la cultura dei movimenti sembra una necessità di chiunque voglia innovare la politica senza perdere il contatto con la società: perciò una battaglia culturale e con implicazioni di lungo periodo deve riversarsi negli spazi istituzionali e della politica senza precipitare nelle angustie e nelle alchimie delle coalizioni. E ancor più è necessaria la creatività per imporre trasformazioni e rifuggire da un passivo adattamento, per liberarsi dalle limitazioni contingenti dettate da una governabilità prescritta in 12 punti. Per queste ragioni mi sembra di straordinaria importanza, anche per lo scenario politico- sociale italiano, la crescita di un movimento globale sui temi dell’energia, in collegamento con la battaglia sul cambiamento del clima e con la lotta alla povertà. Un movimento che, dopo i primi passi a Porto Alegre nel 2005 e poi a Caracas e Bamako nel 2006, ha raggiunto una sua maturità a Nairobi, nel gennaio 2007, ed è ormai una realtà in radicamento nelle sue dimensioni territoriali anche nel nostro paese.

Qui di seguito voglio illustrare alcune straordinarie novità di approccio e riflettere sulla nuova capacità di «narrazione» raggiunta dai movimenti anche sul tema complesso dell’energia. Con nuove prospettive, come è avvenuto per il tema dell’acqua-bene comune, per un cambio di paradigma sostenuto da un alto livello di partecipazione e di autoeducazione e alimentato sia da un apprendimento interdisciplinare innovativo che da un approfondimento conoscitivo scientificamente rigoroso. Dalla rivoluzione industriale in poi, un modo di produzione in continua crescita, che privilegia il valore di scambio sul valore d’uso, ha messo ai margini del proprio orizzonte la relazione con la natura. Anche l’analisi marxiana, nonostante le premesse rigorose per cui vede nel lavoro e nella natura l’origine della ricchezza economica, finisce col concentrarsi esclusivamente sulle relazioni tra gli esseri umani, interpretando il rapporto con la natura soprattutto come una opportunità per «ordinarla» e disporre efficacemente delle risorse attraverso il progresso scientifico. Il modo capitalistico di produzione non nutre preoccupazione alcuna sul fatto che l’attività artificiale dell’uomo, che costruisce attorno a sé una grande quantità di «protesi » del proprio corpo - prodotti che consuma per essere più veloce, più potente, per estendere sul globo i propri sensi o per rendere più confortevole l’esistenza [macchine, automobili, televisori, abbigliamento] - degrada irrimediabilmente l’ambiente naturale. Anzi, perfino nella vulgata delle organizzazioni politiche e sociali del movimento operaio, della natura e della sua irriducibilità ci saremmo dovuti liberare con la scienza e la tecnologia, il cui fine sarebbe stato quello di spremerne al massimo le potenzialità. Così, anche a sinistra i conflitti sono stati indirizzati esclusivamente sulla proprietà e il possesso delle risorse naturali e sugli aspetti redistributivi connessi al loro impiego e resi possibili dal loro consumo. Crescita e benessere non avrebbero mai visto divaricazioni. Senza prendere in considerazione la possibilità che il sole dell’avvenire avrebbe potuto mettere in discussione un giorno l’avvenire del sole. Col tempo, e sotto la pressione di un capitalismo vittorioso e globalizzato, perfino il lavoro ha finito col perdere la sua centralità rispetto al consumo, presentato come mutevole, illimitato, «di diritto», e a spese della natura. Così si è saldato un circuito perverso che prescindeva dalla relazione con la natura. Ma su quali risorse naturali si è fondato quel tipo di sviluppo? Con una certa sommarietà si tende a trascurare che l’evoluzione accelerata dei consumi è stata possibile solo con il ricorso all’energia proveniente dalle fonti fossili: carbone, petrolio e gas, serbatoi vastissimi ma ormai finiti, accumulati dal sole in milioni di anni nelle viscere della terra e consumati dagli attuali abitanti del pianeta in tempi brevissimi attraverso le combustioni, con emissioni catastrofiche per il medio-lungo periodo. L’evoluzione della specie umana così come la intendiamo - il vivente con le sue innumerevoli protesi artificiali – è stata resa possibile dal sistema energetico basato sulle fonti non rinnovabili, che ormai si stanno esaurendo e che, soprattutto, per i suoi effetti sul clima, sull’acqua e sulla salubrità dell’aria, minano direttamente l’esistenza di ciò che sta al centro del sistema artificiale e gli fornisce un senso, con una inedita contrapposizione tra crescita e sopravvivenza, tra economia e vita. Il sole dell’avvenire potrebbe mettere in discussione il sole Dopo almeno tre secoli di credito indiscusso e di continuo successo, due segnali di crisi, legati ai nomi di personalità eminenti del potere economico-industriale, appannano la proiezione nel futuro del sistema delle fonti fossili: il picco di Hubbert e il rapporto Stern. Vengono poste due questioni dirimenti: da una parte, il prezzo del petrolio aumenterà irreversibilmente come quello di qualsiasi risorsa scarsa e, dall’altra, i benefici dell’attività economica, a meno di radicali cambiamenti che provino ad evitare la catastrofe ambientale, saranno annullati, se non addiruttura surclassati, dai costi necessari per riparare il danno dei loro effetti sull’alimentazione, sulla salute, sul livello dei mari, sulla vita e sulla società complessivamente. Due colpi durissimi, interni al modo di pensare prevalente e alla logica economica dello sviluppo di questi decenni, che spingeranno risorse intellettuali, energie sociali e visioni politiche responsabili a individuare rimedi o addirittura a cambiare rotta. Cambierà l’immaginario, molto più rapidamente di quanto si pensi, e il capovolgimento del tempo, la sua marcia a ritroso, favorirà l’abbandono di un ottimismo legato indissolubilmente all’idea occidentale di progresso. Non più un tempo lineare accompagnato da segni solo positivi, ma anche una percezione del suo passare come consumo e degrado irrimediabile della natura. Viene così alla ribalta il concetto di specie, che comincia a prevalere su quello di individuo, e si afferma una responsabilità unitaria e globale, che assume rilievo politico di massa, anche se i governanti continuano a procedere lungo le strade del passato. Ci si comincia a chiedere quanti anni mancano alla fine o quanti se ne possono recuperare cambiando, per trasferire anche alle prossime generazioni le conquiste di civiltà in cui ci si riconosce Finalmente cominceremo a chiederci cosa c’è dietro la presa di corrente a muro che alimenta i nostri elettrodomestici. Se avessimo uno spioncino virtuale da cui guardare, vedremmo scavare miniere, viaggiare navi petroliere e metaniere negli oceani, pompare gas per migliaia di chilometri nelle condotte, bruciare combustibile in enormi centrali allacciate con elettrodotti alle città lontane, disperdere Co2 in atmosfera, solo per alimentare un sistema che attraversa e ferisce i territori. Eppure la fonte di energia del nostro pianeta – il sole – brilla sopra le teste di tutti, senza trasmissioni complicate e proprietarie, intrecciandosi con la biomassa, il vento e l’acqua, e senza correlazione alcuna con le mappe del consumo di energia che sono state disegnate dai ricchi della terra appropriandosi delle riserve fossili anche con la guerra. Per capire meglio, dovremmo fornirci di un bagaglio culturale che ci manca e che la visione del mondo in continua crescita con risorse naturali infinite ci ha proibito di considerare. In fondo, è l'interpretazione scientifica newtoniana del mondo da imbrigliare nelle sue dimensioni quantitative e l'immagine di una natura non degradabile e insensibile allo scorrere del tempo. Ed è stata la rivoluzione industriale, con l’energia ricavata dalle fonti fossili, con il suo sedimento tecnologico e scientifico, con la successiva globalizzazione dei sistemi manifatturieri e l'interconnessione delle reti dei trasporti e delle rotte commerciali, che ci ha indissolubilmente legati ad un bisogno abnorme di energia ed al consumo accelerato della sua quota non rinnovabile. L’economia ufficiale è rimasta ferma a questa rappresentazione del mondo e non si è minimamente curata se la fisica dalla fine dell’Ottocento ha dovuto fare i conti con la legge dell’entropia – che prevede aumento di disordine e degrado termico conseguenti agli scambi energetici; con le spiegazioni della meccanica quantistica, che ci permettono di catturare la radiazione solare e di liberarci dalla combustione; con la teoria del big bang, che illustra come siano occorsi ben 13 miliardi di anni per creare le condizioni della vita sulla terra e come la finestra energetica entro cui una civiltà può sopravvivere sia molto stretta e legata a un equilibrio complesso e precario, facile da distruggere e impossibile da ricostruire; con i modelli biologici, che sostituiscono quelli costruiti in analogia alle macchine e rimpiazzano i metodi analitici e meccanici nella comprensione della biosfera. L’energia è vita o morte, innanzitutto, non solo potenza, velocità, trasformazione di materia. È relazione, pensiero, affetti, respiro, mobilità muscolare: oggetto squisitamente sociale, non solo merce e prezzo economico. Collegare stabilmente l’energia e il diritto ad essa alle basi della vita [e della morte] è insieme una intuizione scientifica modernissima e una urgenza politico-sociale attuale, che comporta uno spostamento simbolico che sta alla base di una narrazione potente. La parola chiave «energia-vita» è lo strumento di una riunificazione nel campo della biosfera di temi nuovi [l’inquinamento, il cambiamento climatico, la rinnovabilità, la lotta alla povertà, la sobrietà degli stili di vita, la nonviolenza], che rimarrebbero altrimenti dispersi e nascosti in comparti separati finora attribuiti alla geopolitica [le guerre, i mercati mondiali, il debito, la ricchezza delle nazioni, la competizione globale]. Si tratta davvero di un cambio di linguaggio e di un approccio all'energia molto più vicino a quello così fruttuoso adottato per l’acqua, e non più applicato esclusivamente alle macchine e alla trasformazione di quantità esponenziali di sostanza inerte, ma vissuto nell'esperienza di donne e uomini come corrispondente ai propri ritmi e tempi biologici, del tutto indipendenti e incomprimibili per vie artificiali. Il passaggio dalla geopolitica alla biosfera ha anche un’altra implicazione: l’unicità del nostro pianeta e il destino comune di chi vi abita, che non dipende dalla potenza e dal possesso, ma dai comportamenti e dalla relazione dei viventi con la natura. Basta richiamare una delle icone più nota e impressionante degli ultimi anni, la fotografia della Terra dallo Shuttle, per vederne la fragilità, l’interconnessione, la labilità di confini per porre rimedio ai suoi mali. La pretesa di mantenere livelli di vita incompatibili contraddice concetti indifferibili nella loro applicazione come quello dell’impronta ecologica, mentre la guerra preventiva risulta palesemente criminale e insensata. Nel senso comune comincia a penetrare la convinzione di una funzione della politica sottratta agli interessi nazionali e rivolta a quella dimensione locale-globale innovativa che sta a cuore ai movimenti. Ma, al riguardo, si è resa così distante la sensibilità popolare da quella dei governanti, purtroppo anche di opposte collocazioni, che si può ben dire che il conflitto sul futuro dell’umanità si disloca più nella direzione alto-basso che destra-sinistra. Troppo spesso infatti le intuizioni di interi territori e di esperienze di lotta, nel caso dell’acqua e dell’energia, assumono un carattere di una trasversalità che spinge al cambiamento e che incontra sull’altro versante una trasversalità conservatrice e continuista delle istituzioni, talvolta anche collocate «a sinistra», ma incapaci di slegarsi dalla loro adesione al paradigma centralista, consumista e in ultima analisi improntato alla guerra per l’energia fossile in via di esaurimento. È quanto è avvenuto, se si guarda nel profondo, per la Val di Susa o per la base di Vicenza. Dire energia oggi corrisponde ancora a richiamare concetti come centralizzazione, militarizzazione, autoritarismo, consumo e spreco, attraversamento distruttivo dei territori, interferenze con i processi vitali. La narrazione di cui abbiamo bisogno e che comincia a prendere forma, all’opposto, parla di decentramento, pace e riconciliazione, democrazia e partecipazione, integrazione territoriale e reti corte, sopravvivenza conviviale della specie e della civiltà. Scenari contrastanti e all’origine di un grande conflitto, che segnerà comunque l’abbandono dei fossili e la presa in carico dei vincoli dell’inevitabile cambiamento climatico: la scelta dell’atomo per perpetrare e addirittura irrigidire il sistema attuale o quella del sole per aprire una prospettiva di giustizia sociale e di democratizzazione. Fonti rinnovabili, territorio, cicli naturali e interculturalità Una critica che si potrebbe condurre all’atteggiamento miracolistico con cui talvolta ci si affida come a una panacea alle fonti rinnovabili, sta nell’eccesso di fiducia nelle soluzioni tecnologiche, secondo un determinismo imposto dall’evoluzione della scienza e della tecnica, quasi a prescindere dai rapporti di produzione e dall’appartenenza ad una società capitalista. Una obiezione che tuttavia va messa alla prova indagando davvero – come faremo nel prossimo paragrafo – alcune caratteristiche che aprono la strada a soluzioni energetiche non fossili e che non stanno più dentro il quadro di continuità o di ulteriore sviluppo degli attuali modi di produzione e di consumo, responsabili della più profonda ingiustizia sociale. Basterebbe pensare alle ragioni per cui le energie rinnovabili non hanno trovato sostegno e sviluppo in un mondo che è sì ipertecnologico ma soprattutto liberista, oppure ai mutamenti sociali, politici e di potere che sarebbero necessari per un passaggio sostitutivo alle fonti solari. Per abbandonare e sostituire un sistema energetico con le caratteristiche di quello odierno, occorrerebbe infatti individuare contemporaneamente una alternativa al modello di produzione e di consumo e di controllo autoritario delle società moderne, conseguibile solo come risultato di imponenti lotte, estese e sostenute da grande convinzione. Di fatto, un passaggio concreto verso una democrazia partecipativa e un nuovo socialismo, che non sembrano alle viste, almeno nell’Europa di Maastricht e della Bolkestein e tantomeno nel campo di forze che nei paesi avanzati detiene saldo il primato e l’orientamento delle scienze e della conoscenza. Anche se si volesse prescindere dalla tecnologia, non c’è soluzione reale al problema energetico odierno e futuro che non passi dalla «nuova narrazione» cui accennavo sopra, nei termini di priorità alla vita umana, giustizia sociale, nuova relazione con la natura, valorizzazione dell’interculturalità e della creatività, generalizzazione della democrazia. Tutto ciò è compatibile solo con l’abbandono di carbone gas petrolio e nucleare, una straordinaria enfasi su risparmio ed efficienza e un ricorso avanzato alle fonti rinnovabili. Le sole che possono essere scelte e governate democraticamente nel loro mix più efficace, nella loro destinazione e nella loro integrazione col territorio e con la comunità locale, senza produrre sprechi e senza lasciare scorie ineliminabili, e solo in base ai bisogni di alimentazione, cultura, mobilità, relazione, produzione, lavoro, reddito, tutela dei beni comuni e sicurezza sociale che stanno a fondamento di un patto sociale condiviso. Con il ricorso a fonti distribuite e ripristinate in tempi biologici dai cicli naturali, la politica energetica verrebbe ricondotta a quel complesso di sistemi di autogoverno e di auto-organizzazione del territorio che sta alla base della crescita delle esperienze partecipative e di uno sviluppo locale con una impronta ecologica verificabile nella sua compatibilità. Le reti che sono sostenute dalle rinnovabili sono per definizione policentriche, corte e diffuse. I cicli naturali vengono chiusi localmente. I collegamenti tra i nodi richiedono compensazioni e interattività e una forte compenetrazione tra produzione e consumo, tra domanda e offerta, rompendo la dipendenza del consumo da un mercato spinto dalle ragioni di profitto nel determinare quantità e qualità dei prodotti individuali da allocare e nel mettere in vendita il patrimonio dei beni comuni. Sul territorio il bilancio energetico e il suo impatto ambientale acquistano trasparenza e il conseguente governo pubblico per il mantenimento di un bene comune come l’energia, da trasferire alle future generazioni, diventa fonte di partecipazione, occasione di studio e ricerca, garanzia di promozione di lavoro stabile e qualificato. Una svolta delle proporzioni che stiamo illustrando ridefinisce l’economia – e quella territoriale in particolare – come la base della vita fisica e spirituale de gli esseri umani: in essa si dovrebbe inscrivere anche la politica energetica dopo l’era dei fossili. Ho parlato di «narrazione» e nuovo immaginario per accennare alla profondità dei cambiamenti da costruire: una impresa che richiede il coinvolgimento, come è il caso dell’acqua, di tutte le culture laiche e religiose in un contesto di interscambio garantito dalla laicità delle istituzioni che regolano e favoriscono la partecipazione democratica. Le ragioni della pace, della tutela dell’ambiente, del dialogo multiculturale e della cooperazione tra i popoli, nonché della lotta alla povertà richiedono quindi quel che si dice un mutamento di paradigma. Non si tratterà di un passaggio indolore, dato che occorrerà collegare il necessario cambiamento dei propri stili di vita con l’indispensabile intervento della politica per riconvertire l’economia. In sintesi, potremmo dire che, affinché tutti gli esseri umani vedano riconosciuto il loro diritto all’energia, e perché al tempo stesso siano salvaguardati gli equilibri ambientali e climatici, occorre innanzitutto ridurre drasticamente i consumi energetici nel nord del mondo, portare verso la convergenza lo sviluppo dei paesi poveri e promuovere la diffusione di tecnologie per energie rinnovabili e sostenibili in tutto il pianeta, rinunciando all’opzione nucleare. Decrescita, convergenza, rinnovabilità e democrazia. Il ciclo che si instaurerebbe, tenderebbe così per scelta e non per imposizione verso l’autosufficienza e la riduzione dei consumi non necessari. Ciò contribuirebbe al rallentamento dell’incremento del Pil globale, a cui però corrisponderebbe un migliore impiego delle risorse personali e naturali diffuse, inserendo un forte elemento di discontinuità con la società dello spreco e della distruzione della natura. La «peculiarità» delle fonti rinnovabili Per comprendere meglio la produttività di una «nuova narrazione», bisogna approfondire qualche valutazione sulle speciali caratteristiche termodinamiche e chimico- fisiche delle fonti rinnovabili e sulla loro differenza strutturale rispetto alle fonti energetiche tradizionali. In una centrale elettrica tradizionale o in un motore a scoppio si usa materia [fossile per lo più] per produrre energia: questa energia viene impiegata per usi appropriati e non viene perduta, ma diventa inaccessibile e ritorna all’ambiente sotto forma di calore e di scoria [Co2, inquinanti, materiale radiattivo etc.]. Inoltre, le tecnologie più diffuse producono energia «pregiata» [elettrica o meccanica] tramite la combustione e la produzione di vapore, disperdendo nell’ambiente grandi dosi di calore e consumando acqua in grandi quantità. In tutti questi sistemi, per un uso finale appropriato, si impiegano le fonti non rinnovabili con rendimenti molto bassi e con scorie, inquinamento e aumenti locali di temperatura consistenti. In genere, a meno di recuperi parziali per usi termici, almeno il 70 per cento del contenuto energetico viene disperso. Ancora, la concentrazione dei fossili e dell’uranio in giacimenti localizzati richiede un enorme sistema di trasporti e movimentazione, lo sviluppo di grandi impianti di raffinazione e di conversione, reti di distribuzione dei prodotti energetici che ricoprono l’intero pianeta. Anche queste fasi richiedono energia di sostentamento e, quindi, spreco e perdita uleriore di rendimento delle fonti primarie. Per il possesso di queste fonti ormai scarse si combattono guerre ormai permanenti, i cui costi e il cui consumo di energia si vanno a sommare a quello disperso in un sistema largamente insostenibile. Dove sta allora la convenienza? Sta nel fatto che per estrarre i combustibili fossili, la quantità di materia necessaria è relativamente piccola e ancora minore è quella necessaria per trasformarli in energia termica industriale [non così per il nucleare, che ha infatti convenienze minori e può essere sostenuto dal punto di vista economico solo dall’esternalizzazione dei suoi ingenti costi]. Così come il fuoco, le tecnologie fondate sulla macchina a vapore o il motore a scoppio sono effettivamente in grado di autosostenersi: l’energia da essi sviluppata nel loro ciclo di vita è più che sufficiente per riprodurle, mentre il consumo di materia è relativamente contenibile. Si parla, nel loro caso, di «tecnologia vitale», di qualcosa cioè simile ad una specie in grado di sopravvivere: una volta nata da una tecnologia precedente, deve solo mantenersi. Naturalmente, il fuoco e la macchina a vapore sono innovazioni autosostenibili fino a quando è disponibile il combustibile che li alimenta e fino a che i costi ambientali non mettono a rischio la sopravvivenza: oggi invece siamo alla crisi definitiva della loro autosostenibilità. Riguardo a questa crisi, c’è una evidente disinformazione sulle presunte potenzialità offerte dal nucleare. Si tratta di una soluzione non praticabile, al di là delle insormontabili controindicazioni ambientali, perché, per sostituire petrolio gas e carbone, si dovrebbe costruire una centrale nucleare quasi ogni giorno per sette anni: dato che ci vogliono dodici anni per mettere in funzione una nuova centrale nucleare, e nove anni per recuperare il suo contenuto energetico, arriveremmo al fatidico 2030 con benefici nulli per i cambiamenti climatici e con l’esaurimento dell’uranio disponibile sul pianeta. L’altra via d’uscita indicata anche dal rapporto Stern e dalla Ue riguarda il sequestro della Co2. Senza contare che è difficile e pericoloso «sparare» tutto questo gas dal punto di produzione nelle rocce o nei mari, si tratterebbe di un processo molto costoso, al punto da abbassare l’efficienza delle centrali e da rendere già ora più competitiva l’energia da eolico, e tra una decina di anni, quando presumibilmente potrebbero entrare in funzione gli impianti di sequestro, più vantaggiosa l’energia da fotovoltaico. Partendo da queste considerazioni, possiamo chiederci: il ricorso alle fonti rinnovabili manterrebbe il quadro di crisi energetica, ambientale, democratica e sociale a cui ci hanno condotto le fonti tradizionali o ci fornirebbe una occasione di cambio autentico di paradigma, non per via tecnica ma per via politica? La risposta è sì, come risultato di un processo conflittuale e di presa di coscienza orientato alla giustizia sociale ed a superare le distorsioni dell’attuale modello di produzione e di consumo. Prima di elencare alcune peculiarità intrinsecamente positive del ricorso al flusso di energia di provenienza solare, vanno espresse ancora alcune valutazioni che ne mostrano problematicità non del tutto risolte. Per l’utilizzazione diretta dell’energia solare c’è un elevata richiesta di materia, e questo aspetto va considerato con grande attenzione. Attualmente si è giunti finalmente alla possibilità di produrre pale eoliche, pannelli termici e collettori solari grazie alla sola energia accumulata da essi e, quindi, l’applicazione dei metodi esistenti basata su queste tecnologie non è più parassitaria della tecnologia corrente. Sono diventate anch’esse «tecnologie vitali». Dato che nessuna tecnologia può comunque creare il proprio combustibile e il difetto principale dell’energia solare è la bassa intensità con cui raggiunge la terra, e la difficoltà di qualsiasi possibilità di autoconservazione, con le energie rinnovabili non saremmo in grado di mantenere la corrispondente struttura materiale e, necessariamente, la specie umana, se non alla condizione di una grande riduzione dei consumi. Ma non basta: mentre l’uomo, nel caso di carbone e petrolio, possedeva il controllo degli stock fossili, non è invece in grado di determinare quello dei flussi solari e non può disporre che del flusso presente. Quindi deve riorganizzare i propri tempi ed i propri spazi sulla base del suo rapporto con la biosfera, riportando l’economia da una scala globale – che ha ridotto per via capitalistica, ma anche grazie alla disponibilità dei fossili, le persone a quantità e i lavoratori a merci – a una scala inferiore, ponendo prima di tutto attenzione alla valorizzazione della dimensione locale con il suo portato di risorse naturali, specificità territoriali, conoscenze e capacità di creare valore sociale all’interno dello stesso gioco economico. Preservando, mantenendo e sottraendo dal mercato i beni comuni e in particolare proprio l’acqua e l’energia. Proviamo ora a esplicitare più in dettaglio le caratteristiche intrinsecamente rilevanti delle fonti solari [comprendendo in esse quelle idriche, quelle eoliche e le biomasse]: 1] La possibilità di trasformare in corrente elettrica la fonte naturale passando per un’unica fase di conversione rappresenta la più grande rivoluzione di efficienza pensabile. Se poi si considera che lo stoccaggio di energia è per le rinnovabili abbastanza problematico e avviene dopo la trasformazione e non prima, risulta del tutto nuova l’opportunità di basarsi sulla domanda effettiva e non sull’offerta in base ai prezzi. Più agevole quindi pensare al valore d’uso che a quello di scambio e più facile pianificare la disponibilità energetica per il consumo locale e per un eventuale «stoccaggio » in alimenti provenienti dall’agricoltura o in acqua portata in superficie. Èdi conseguenza decisiva la massima vicinanza tra la raccolta tecnica delle energie rinnovabili e il loro utilizzo, vale a dire sia l’orientamento sul potenziale naturale più disponibile sul territorio che la loro massima diffusione decentrata. 2] Stiamo passando a energie naturali dell’ambiente, che possono essere ricavate ovunque con l’ausilio della ricerca e della tecnica e l’impiego di lavoro qualificato e con la riduzione di infrastrutture di approvvigionamento e distribuzione. Proprio perché naturali, e quindi legate all’equilibrio dinamico della biosfera, tutte le tipologie solari danno luogo ad una risultante compensativa, quasi sempre costante: in generale, nei luoghi dove c’è meno sole, c’è più vento o biomassa; dove c’è più potenziale idrico, c’è meno impatto solare; dove c’è forte irradiazione solare c’è carenza idrica e poca biomassa. Questo comporta che non esiste una ricetta predefinita, ma un mix di fonti da ottimizzare per adattarsi alle caratteristiche di ogni territorio. 3] Le filiere delle rinnovabili sono molto più brevi [corte] poiché viene meno il problema di predisporre l’energia primaria e di distribuirla per l’approvvigionamento. Il potenziale di energie rinnovabili disponibile autonomamente può essere attivato senza accordi con i fornitori di energia primaria. Bastano strategie comunali e regionali, dato che il mercato delle rinnovabili è orientato dalla domanda con tutte le caratteristiche di un mercato interno. Questo è un vantaggio enorme, ad esempio, per il sud del mondo e per le zone rurali dove vivono due miliardi di persone senza collegamento alla rete elettrica e, quindi, senza ancora dipendenze obbligate dalle multinazionali dell’energia. 4] La nuova energia si può pianificare diffusamente nell’ambito dell’autogoverno comunale e con la partecipazione della popolazione locale. La concessione dei siti deve essere affidata alla responsabilità democratica a livello locale invece di attribuirla a istanze burocratiche che non vivono il paesaggio e che lo scindono dalla vita sociale. L’economia energetica regionale e comunale, scegliendo il suo mix di fonti più adatto al territorio, può riprendere nelle sue mani la produzione elettrica, come partner dell’agricoltura e fornitore dei servizi alla produzione territoriale. I costi energetici conseguentemente pagati dalla comunità rimarrebbero nel ciclo economico regionale e comunale. I Piani regolatori e i tracciati urbanistici andrebbero anch’essi ridisegnati sulla base delle esigenze energetiche codecise nel territorio: era già così al tempo delle grandi città d’arte, tutte – ce lo dimentichiamo talvolta – costruite e alimentate da fonti solari. 5] Non esiste alcun monopolio d’azione e di investimento per le energie rinnovabili decentrate e non c’è più bisogno di grandi impianti, a meno di consumo abnorme di territorio e di stoccaggi non più convenienti e, quindi, disincentivati. La rete policentrica diventa anche per l’energia il modello confacente alla trasformazione democratico- relazionale in corso. 6] I biocarburanti possono costituire una chance e potrebbero sostituire i carburanti fossili solo se prodotti per uso locale e non in concorrenza con la produzione agroalimentare. Destinati in particolare per i mezzi agricoli e, in alternativa, per la mobilità territoriale in abbinamento con la progettazione di motori adatti a diversi carburanti e a trazioni ibride. Oppure per un uso flessibile di miscele di carburanti, compreso l’idrogeno prodotto da fonti rinnovabili, utilizzato magari in celle a combustibile per la parte elettrica, purché si vada per questa via a un superamento dell’auto di proprietà individuale, fonte di uno dei consumi più alti di materia. È da combattere comunque l’industrializzazione della biomassa, un nuovo tipo di colonialismo per recuperare materia prima per i carburanti dal Brasile e dall’Indonesia, con le conseguenze ormai note per le foreste tropicali e con le ricadute negative sulla situazione dei lavoratori agricoli. La «narrazione» di cui trattiamo ha un riferimento già in corso nell’Africa di oggi. Tutte le volte che sono state alle prese con una crisi, le civiltà sono riandate al loro passato, cercando ispirazione per il loro futuro. Anche per la crisi energetica in corso è utile riandare alle radici e l’Africa ci riporta indietro, non solo come luogo delle origini, ma come inizio di una società in cui emerge la complessità e come organizzazione comunitaria in cui il linguaggio e la cultura fanno la loro indelebile apparizione. Un luogo da cui ripartire conservando la memoria, dove risorse naturali, sopravvivenza, rispetto dell’altro, spazi di comunità e conquiste sociali sono alla pari e senza alcuna soggezione di fronte alle meraviglie o alla ferocia della modernità. Ho avuto la fortuna per alcune settimane in due inverni consecutivi [2006 e 2007] di soggiornare in villaggi e in città per tessere la rete del «Contratto mondiale per l’energia e il clima» tra i movimenti subsahariani. Ho imparato, ad esempio, che il diritto all’energia è molto meno immediato, e sentito a livello popolare, del diritto all’acqua. Che la percezione dei cambiamenti climatici corrisponde al vedere avanzare il deserto o abbattersi piogge torrenziali senza aver consumato negli stessi luoghi quantità rilevanti di energia e, quindi, a sentire la terra un tutt’uno, ma la proprietà delle risorse una spaventosa divisione. Ho appreso che l’uso di energia ha effetti decisivi non, come ci verrebbe da pensare, per maggiori consumi, ma innanzitutto per l’igiene e per la salute, e che l’acqua ne è il vettore naturale. Ho capito che l’energia è associata alla vita in quanto cibo, conservazione, trasmissione di cultura in continuo deperimento, mobilità muscolare e collettiva ancor prima che meccanica. Che l’eccesso di radiazione solare è stato controllato nelle abitazioni, negli indumenti, nelle cadenze degli orari e nelle forme di relazioni adottate, ma non ha traduzione alcuna in dispositivi in grado di sfruttarne la diffusione e l’implacabile continuità per combattere la povertà. Che un conflitto tra uso dell’acqua dei fiumi a fini energetici e a fini agricoli è la riproposizione attuale dei rapporti coloniali appena superati. Che le organizzazioni locali dei sindacati sono purtroppo le sostenitrici più accanite della conservazione di un modello di grandi centrali ad olio, che l’Africa non ha mai desiderato se non su richiesta dei suoi dominatori, e che il futuro dei grandi «slums» di Nairobi o di Dakar rischia di essere la discarica di parchi auto ed elettrodomestici della classe media che si arricchisce. Ho constatato che sul Delta del Niger le grandi compagnie petrolifere [e tra esse l’Eni] per estrarre più velocemente petrolio bruciano in loco il gas associato ai pozzi e che l’anidride carbonica immessa in tal modo in atmosfera è quasi due volte quella che emette per le sue attività la popolazione di tutta l’Africa subsahariana. Oltre a tutto ciò ho però sentito già la potenza di una nuova narrazione. Nel convegno di Dakar del 2006 sulla saggezza, Boris Diop, un intellettuale prestigioso e una icona locale dei movimenti, ripeteva che la fonte energetica rinnovabile più preziosa sta nella lungimiranza e nella memoria degli anziani dei villaggi, che conoscono le soluzioni più adatte all’integrazione tra vita, territorio, risorse e risparmio. Ho constatato che le compagnie cinesi che firmano contratti per prelevare il petrolio africano, scambiano tecnologie solari ed eoliche, oltre che manutenzione e formazione per il loro mantenimento, su pressione delle associazioni non governative e su richiesta dei governi locali democratici, che temono un boom energetico senza ricadute durature sulla loro popolazione. Ho avuto la sensazione che la stessa opzione già operante con il salto dalle linee telefoniche tradizionali ai cellulari satellitari sia in atto per l’energia rinnovabile diffusa da piccoli impianti, e che le nuove potenze come Sudafrica e Nigeria vogliano investire in questa direzione in tutto il continente, contando anche sulle rimesse degli emigranti che costituiscono già oggi la metà degli investimenti esteri. In effetti, tutta la cultura tradizionale e la contiguità col mondo naturale, interpretata come un valore necessario alla sopravvivenza, rendono qui auspicabile il cambiamento, non tanto tecnologico, quanto politico, sociale e organizzativo del modello di produzione e consumo dei paesi ricchi. Così, sembra formarsi con originalità la via africana alle energie rinnovabili, per un benessere sobrio, che valorizzi i modi di vivere delle comunità, capace di integrare le loro attività con le risorse del territorio e di chiudere su di esso i cicli energetici altrimenti aperti. Comunità disposte a diventare nomadi per seguire nella sua evoluzione ciclica la natura, piuttosto che costringerla ad adeguarsi ad una civiltà artificialmente disarmonica. La fonte solare, vista come grande possibilità di approvvigionamento energetico decentrato e democratico [svincolato anche dagli intermediari ex colonizzatori come le grandi multinazionali], perfettamente integrabile nel territorio e controllabile dalla comunità, è la chiave di una svolta a cui si è cominciata a dedicare la rete africana del «Contratto per l’energia e il clima», rete in crescita nei territori, nelle università, nelle adesioni dei movimenti. Differentemente dal nord ricco, dove prevale una visione catastrofica del cambiamento climatico e la preoccupazione della sopravvivenza, l’Africa concentra già ora il suo sforzo attorno al cambiamento energetico e alle nuove potenzialità di vita che si possono offrire in simbiosi con la natura.

Prime conclusioni Si sta verificando una possibilità inedita di interpretare anche sotto la categoria dell’energia e della politica energetica molti aspetti della lotta dei movimenti per un nuovo mondo possibile. Una categoria molto potente per produrre sintesi e per creaare una narrazione che, come nel caso dell’acqua, sposti verso la vita, l’universalità dell’accesso e il mantenimento dei beni comuni l’obiettivo principale dell’economia, oltre che il compito riconosciuto della politica. Occorre, per dar vita a un immaginario fecondo e alternativo a quello fino ad oggi prevalente almeno nei paesi ricchi, convincersi che non ci sono più piani diversi per la lotta per l’ambiente e per quella per la giustizia sociale. È indispensabile cominciare ad avere una visione planetaria dei problemi e un’attenzione lungimirante al futuro, con un mutamento del contesto spaziale e temporale in cui si è valutata la crescita nell’era dei fossili, scegliendo la biosfera anziché la geopolitica come terreno di analisi e come spazio reale entro cui contenere e ridurre consumi e produzioni materiali. È aperto un conflitto molto profondo, che riguarda gli spazi di democrazia, le prospettive di pace, le relazioni con la natura e la scelta della multiculturalità come metodo di approccio alla ricerca delle soluzioni. Immanuel Wallerstein ha indicato tre ostacoli potenti al cambiamento auspicato: gli enormi interessi delle multinazionali, in particolare dell’energia, che si opporranno a internalizzare i costi effettivi delle fonti inquinanti da loro immesse in concorrenza sul mercato e che lotteranno per ulteriori liberalizzazioni e deregolamentazioni; la difficoltà dei paesi poveri a ristrutturare le proprie produzioni in assenza di cooperazione internazionale; il consumismo dei paesi e delle classi sociali ricche che, per essere ridotto, richiede si cambi significativamente il proprio stile di vita, maturando all’interno del proprio sistema di valori una concezione della vita più paritaria e aspirando a una socialità e a una convivialità sostitutive dello spreco individuale. Questi ostacoli sono già, nelle analisi e nelle soluzioni, il nucleo di un programma politico a cui offre un sostegno formidabile il cambio di paradigma qui in alcuni aspetti analizzato dai fossili al solare. Per rendere più concreto e gradevole fissare gli obiettivi, abbiamo pensato alla «bellezza dei numeri», intesi come traguardi per la salute della specie e della Terra. 1 Tep [Tonnellate equivalenti di petrolio] pro capite di consumo di energia entro il 2050; 1,5 Ton/anno pro capite di emissioni di Co2 entro il 2050; inversione dell’«overshoot day» al 31 dicembre nel 2030; impronta ecologica a 1,8 ettari/pro capite al 2030; 100 grammi di Co2 per chilometro massimi come emissioni da veicoli al 2010. Abbiamo detto fin dall’inizio che esiste un formidabile riferimento per la nuova narrazione: l’esperienza maturata in tutto il mondo e anche nel nostro paese sulla riconsegna dell’acqua al diritto alla vita, alla proprietà e al governo pubblici e alla partecipazione democratica. La questione dell’energia, nel momento in cui la si associa al mutamento climatico, cammina sulle medesime gambe: infatti quando cambia il clima, cambia la natura; quando cambia la natura, cambia la disponibilità dell’acqua, la fertilità del suolo, la forza dei venti, la consistenza della vegetazione, la ricchezza della fauna e della pesca. Ma tutto questo colpirà in particolare i paesi del sud e, ancor più, le economie più fragili. Stiamo per commettere una violazione dei diritti umani minando la base della sussistenza di tanta gente, che potrebbe perire o dover diventare rifugiato ambientale. È così che la questione energetica sta diventando sempre più comprensibilmente la questione dei diritti umani, iscrivendo il suo ruolo nel contesto delle lotte universali per l’emancipazione. (di Mario Agostinelli - www.marioagostinelli.it)
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lunedì 16 luglio 2007


 
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