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Urbanizzare il marxismo.

Una intervista con DAVID HARVEY (di Arnau Barquer). Qui David Harvey spiega che la crisi ha permesso al neoliberismo di penetrare sempre più a fondo nelle nostre vite. Che la sinistra rischia di proteggere un mondo che sta per scomparire. E che stiamo iniziando a scoprire come il municipalismo possa essere parte di un progetto più grande David Harvey non è semplicemente una delle figure più citate nelle scienze sociali; è anche uno dei marxisti contemporanei più in voga. La sua collana Companion to Marx’s Capital ha permesso a un’intera generazione di conoscere le opere più importanti del pensatore tedesco, mentre nei suoi studi sulla storia del neoliberismo e sugli spazi urbani ha saputo adattare gli strumenti di Marx alla realtà politica contemporanea. Avendo iniziato la propria carriera con lo studio dei processi di rimodellamento di città come Baltimora, il lavoro di Harvey è conosciuto per la sua attenzione alle continue rivoluzioni causate dal capitalismo, quella miriade di modi che il capitalismo ha di riorganizzare le nostre vite e l’ambiente in cui viviamo. Su questa scia, Harvey ha posto molta enfasi sull’importanza dei movimenti sociali urbani e delle lotte per il diritto alla città. A giugno il geografo marxista è stato a Barcellona per promuovere un’antologia dei suoi lavori in lingua spagnola. Arnau Barquer della rivista Catarsi l’ha incontrato per discutere degli effetti a lungo termine della crisi finanziaria, dell’importanza delle battaglie per gli spazi urbani e per il diritto alla casa, e della capacità dei governi nazionali e locali di resistere allo strapotere della finanza.

È passato più di un decennio dalla crisi finanziaria. Che ruolo ha avuto questa crisi all’interno del capitalismo, e qual è stato, nello specifico, il risultato di questa crisi? È effettivamente passata o, come sostengono alcuni economisti, siamo sull’orlo di una nuova recessione? Le crisi possono essere lette in tanti modi. Ci sono quelli che preferiscono pensare alle crisi come a segnali della fine del capitalismo. Io ritengo che siano più delle occasioni di riorganizzazione del capitale, che rimodella sé stesso per adeguarsi alle nuove circostanze, grazie alla costruzione di un modello alternativo. Spesso ci troviamo in situazioni in cui l’economia va bene, ma le persone stanno male. Quella accaduta tra il 2007 e il 2009 è stata una crisi importante. Ma ci sono grosse differenze tra le varie risposte adottate per contrastare la crisi. In Occidente, la risposta è stata soprattutto l’austerità. Ci è stato spiegato che questa era un crisi del debito, e che avremmo dovuto ridimensionare un po’ tutto. Il risultato è stato un abbassamento della qualità della vita per la gran parte della popolazione. Abbassamento che, tuttavia, non ha avuto effetti sui super-ricchi: la maggior parte dei dati a nostra disposizione suggerisce che l’1% o il 5% più ricco è uscito fuori dalla crisi molto meglio di come c’era entrato, e anzi probabilmente ci ha guadagnato. C’è un detto su questo, «non lasciare che una buona crisi vada sprecata», e i professionisti della finanza e simili hanno superato questa crisi molto bene. Ma c’è stato anche un altro tipo di risposta, totalmente diversa: quella della Cina. La Cina non ha adottato misure di austerità. Ha invece investito pesantemente nelle infrastrutture, nell’urbanizzazione e così via. Questo forte sviluppo ha aumentato la domanda di materie prime, e così le nazioni che hanno rifornito la Cina – per esempio il Cile, con le esportazioni di rame, o il Brasile con il ferro, i semi di soia e altre cose – sono uscite dalla crisi abbastanza in fretta. La Cina ha salvato da sola il capitalismo globale da un collasso completo. Penso che questo non sia del tutto chiaro all’Occidente, ma dal 2007-2008 la Cina ha generato più crescita di quanto non abbiano fatto il Nord America, l’Europa e il Giappone messi insieme. Tutte le crisi precedenti hanno prodotto nuovi modelli di organizzazione del capitale. Negli anni Trenta ciò ha generato il keynesismo, l’intervento statale e così via, mentre negli anni Settanta la crisi ha portato al neoliberismo. Ma questa volta, non penso che il 2007-2008 abbia prodotto qualcosa. Le politiche proposte sono state, se possibile, ancora più neoliberiste. Ma il problema è che il neoliberismo ha perso la sua attrattiva e la sua legittimità, e così viene oggi tenuto in vita con mezzi autoritari e col populismo di destra. Lo vediamo bene con Donald Trump, le cui politiche sono pienamente neoliberiste – fatte cioè di deregulation e meno tasse per i ricchi. Hai citato Trump. A volte le crisi aprono spazi di possibilità per le persone comuni che vogliano organizzarsi. Ma negli Stati uniti e in Europa le abbiamo invece viste seguire da leader reazionari. Cosa significa parlare, in termini marxisti, di condizioni oggettive di mobilitazione? Be’, certo che dobbiamo parlare di condizioni oggettive: perché non dovremmo? Ma le condizioni oggettive sono anche frutto di politiche specifiche. Penso che la sinistra non abbia risposto molto bene alle trasformazioni che hanno investito il capitalismo e corra oggi il rischio di ripetere alcuni errori del passato. Negli anni Ottanta e Novanta l’Occidente si è pesantemente de-industrializzato, principalmente grazie al cambiamento tecnologico, e la sinistra ha provato a contrastare la de-industrializzazione per proteggere la tradizionale popolazione working class. Ma ha perso questa battaglia, e con lei la sua credibilità. Oggi l’intelligenza artificiale produce nel settore dei servizi l’effetto che l’automazione aveva fatto all’industria. La sinistra corre il pericolo di proteggere qualcosa che sta comunque per scomparire per motivi tecnologici. Credo che dovremmo dar vita a una sinistra creativa, che abbracci l’intelligenza artificiale, l’automazione, e più in generale l’idea di un nuovo modello di lavoro e nuove strutture lavorative – andando al di là di ciò che oggi propone il capitalismo. Ma questo significa anche una politica alternativa. La working class del passato non esiste più in molte nazioni, e le basi per le politiche tradizionalmente di sinistra stanno scomparendo insieme con lei. Certo, non è scomparsa proprio del tutto, ma è stata fortemente ridimensionata. E così, abbiamo bisogno di un nuovo approccio di sinistra che si dedichi a quelle che chiamerei «politiche anti-capitaliste»: non incentrate semplicemente sul luogo di lavoro, ma capaci di guardare alle condizioni di vita quotidiana, alla casa, alla previdenza sociale, alle preoccupazioni ambientaliste, al cambiamento e alle trasformazioni culturali. Hai parlato del potenziale rivoluzionario dei movimenti urbani. Pensi che i partiti di sinistra li abbiano sottovalutati? I movimenti sociali sono presenti nelle città da molto tempo. Negli ultimi vent’anni o giù di lì, i principali movimenti sono comparsi nelle città e si sono occupati soprattutto del peggioramento della qualità della vita. Per esempio la rivolta di Gezi Park in Turchia e i movimenti nelle città brasiliane per la mobilità e la creazione di infrastrutture necessarie alla popolazione. A un certo punto, abbiamo dovuto riconoscere che si trattava di un’area in fermento, e che c’erano molte più proteste riguardo a queste questioni di quante non ce ne fossero nei luoghi di lavoro – anche se i problemi nei luoghi di lavoro, chiaramente, ci sono ancora. Questo ha posto alla sinistra un problema di posizionamento – dai movimenti sociali urbani sarebbe nata una nuova sinistra, oppure no? Sin dagli anni Settanta io sostengo che sarebbe dovuta nascere da lì. All’epoca nessuno mi dava retta, ma dal Duemila le cose sono cambiate. Il movimento per la casa è cresciuto molto a Barcellona, così come a New York, mentre in California ci sono state mobilitazioni per il controllo degli affitti. Se pensi al numero di città dove i movimenti per la casa stanno iniziando a esercitare una forte pressione politica, è assurdo che la sinistra li ritenga irrilevanti. È vero soprattutto quando ti accorgi che questi movimenti stanno prendendo di mira soprattutto il grande capitale – nel loro caso Blackstone, a oggi il più grande proprietario di case in affitto del mondo. Sta prendendo forma una coalizione anti-Blackstone, che è il principale attore immobiliare della California, ma sta creando problemi anche a Barcellona, Mumbai, Shanghai, ovunque. È nato un movimento anti-capitalista, ma si è formato sulla questione della casa. Sono eccitato dalle possibilità che esprime. Un movimento internazionale che provasse a espropriare i possedimenti della Blackstone sarebbe davvero interessante. Nel tuo libro dici di aver scoperto Karl Marx relativamente tardi. Cosa ti ha portato a scegliere questa scuola di pensiero? A trentacinque anni studiavo il processo di urbanizzazione a Baltimora. Ero coinvolto in inchieste sulla qualità del mercato immobiliare e su cosa avesse causato la crescita delle città statunitensi negli anni Sessanta. Per le mie ricerche utilizzavo i metodi delle scienze sociali, che però non funzionavano molto bene, e così pensai di guardare ad altri approcci. Mi capitò di dire ad alcuni studenti che forse avremmo dovuto leggere Marx. Iniziai a leggere Marx, e lo trovai molto pertinente. Per certi versi, fu più una scelta intellettuale che politica. Ma dopo che ebbi citato Marx un po’ di volte, dichiarandomi d’accordo con lui, le persone iniziarono a dire che ero un marxista. Non capivo cosa intendessero, ma dopo poco rinunciai a negarlo e dissi: «Ok, se dite che sono un marxista, allora sono un marxista, anche se non so cosa vuol dire» – e ancora oggi non lo so. Ma è un’espressione che ha un chiaro carattere politico, di critica al capitale. Penso che Marx sia più rilevante oggi di quanto non lo sia mai stato. Quando Marx scriveva, il capitale ancora non dominava il mondo. Dominava la Gran Bretagna, l’Europa occidentale e gli Stati Uniti orientali, ma non la Cina o l’India. Ora è padrone di tutto. Per questo ritengo che l’analisi che Marx fa del capitale e delle sue contraddizioni sia oggi ancora più attinente alla realtà. Le giovani generazioni di attivisti sono più interessate a leggere Marx attraverso la lente dell’azione politica che a livello accademico. Potresti dirci qualcosa sugli effetti che la crisi ha avuto nella riscoperta di Marx, e che tipo di prospettiva possiamo ricavare da Marx leggendolo attraverso la lente di una disciplina come la geografia? Marx ha detto che il nostro lavoro non è comprendere il mondo, ma cambiarlo. Ma io non penso che nella sua opera ci sia uno scarso interesse verso la comprensione e l’analisi del mondo. Perché ha scritto il Capitale? Perché pensava che per cambiare il mondo, prima devi capire bene come funziona. Una delle cose che penso sia importante è provare a recuperare l’opera di Marx in modi adatti alle circostanze attuali, così che le persone possano farsi un’idea migliore di ciò che stanno combattendo. Il mio interesse per la geografia e l’urbanizzazione mi ha portato a leggere Marx in modo diverso da tanti altri. E così, in The Limits of Capital, ho parlato a lungo della finanza – un argomento che, stranamente, non era molto trattato negli anni Settanta – così come della terra e dei suoi utilizzi. Le mie letture e le mie analisi di Marx sono sempre state indirizzate alla comprensione del suo pensiero in relazione allo sviluppo geografico disuguale e all’urbanizzazione. Questo mi ha portato a enfatizzare alcune cose di Marx che altri tendono invece a ignorare. Il fatto che un libro pubblicato nel 1982 sia ancora oggi letto e ristampato ci dice che questa cornice è importante per le persone che si occupano del problema della casa, mentre altri approcci marxisti lo sono meno. Nel corso degli anni in cui ho insegnato Marx, ho attraversato momenti in cui c’era gente che voleva leggerlo, poi non lo voleva leggere più, e poi lo voleva leggere di nuovo. Dopo la crisi del 2007-2008 c’è stato, senza dubbio, un grande interesse verso Marx. Ora sembra che questo interesse sia un po’ scemato, dal momento che molte persone sono ossessionate dal voler spiegare fenomeni come Donald Trump e i rigurgiti simil-fascisti come Orbán, Erdogan, Bolsonaro, e altri. Ma, sicuramente, se ci sarà un nuovo intoppo serio nell’economia globale – e ci sono tanti segnali di questo tipo – torneremo a parlare più spesso di economia politica.

Qui, a Barcellona, negli ultimi cinque anni un partito di sinistra (Barcelona en Comú) ha guidato il consiglio comunale, insieme a una rete di movimenti sociali. Ma non è riuscito a portare a compimento molte delle promesse fatte all’inizio. Il tuo lavoro sottolinea l’importanza dello spazio locale, ma quest’esperienza non dovrebbe farci mettere in discussione il valore del municipalismo? Uno dei problemi che stiamo solo cominciando ad affrontare riguarda cosa effettivamente le municipalità possano ottenere in ambito politico. Negli Stati uniti abbiamo parecchie amministrazioni comunali radicali. Per esempio, c’è Seattle; anche Los Angeles è abbastanza progressista; e anche a New York c’è un’ala progressista. Penso che dato lo slittamento dell’interesse generale dai problemi che riguardano il lavoro ai problemi della vita quotidiana nelle città e nel settore abitativo, la sinistra abbia bisogno di nuove politiche che si concentrino su tutto questo. Abbiamo poca esperienza di cosa le amministrazioni municipali possono effettivamente fare, date le risorse limitate cui hanno accesso. Per esempio, a New York il sindaco è fortemente limitato dal fatto che non può riformare il sistema di tassazione – questa è una cosa che deve fare lo stato. L’amministrazione statale è in mano ai Democratici, ma non ama il sindaco, e così c’è un conflitto tra questi due livelli di governo, e anche a Barcellona c’è un governo regionale in disaccordo con il governo cittadino, ciascuno dei quali tenta di screditare l’altro. La tua è una domanda importante. Ma quello che interessa a me e ad alcuni dei miei colleghi è: se la sinistra ottiene il potere a livello locale, ci sono degli studi e delle scuole di pensiero capaci di aiutarla, nei termini di ciò che può ragionevolmente fare data la natura limitata del suo potere? Il potere dei governi locali è circoscritto. Nella Gran Bretagna, ad esempio, le amministrazioni locali non hanno la possibilità di intervenire praticamente in niente, se non nella gestione dei rifiuti. Lì, mi piacerebbe vedere un governo centrale che concede più potere alle municipalità, e spero in una cosa simile anche per Barcellona. Stiamo solo iniziando a scoprire in che modo il municipalismo possa essere parte integrante di un progetto socialista più grande. La risposta alla tua domanda, dunque, è: non lo sappiamo ancora, ma non abbiamo nemmeno chi se ne stia occupando, e così spetta a persone come me organizzare dibattiti accademici per costruire un think tank in grado di dire che cosa può essere sperimentato. Ma parlando di una questione come quella della casa, per esempio, quali potrebbero essere i principali problemi politici da risolvere? Credo che la casa sia un diritto, e dovrebbe essere trattato come tale. Persino la legislazione congressuale statunitense del lontano 1949 sostiene che ciascun cittadino ha diritto a una casa e a condizioni di vita decenti. Ora, se la casa è un diritto, dovremmo organizzare la società in modo che possa garantirlo. Il problema è che nel corso del tempo ci hanno raccontato che l’unico modo per garantire questo diritto è affidarsi al mercato. Ma se il mercato è eccezionale nel garantirlo alle classi più agiate, non lo è altrettanto per le classi medie, e non lo è affatto per chiunque abbia problemi a trovare un’abitazione a prezzi accessibili. Lasciare questo compito in mano al mercato è un disastro, se davvero si vogliono garantire condizioni di vita decenti a tutti i cittadini indipendentemente dal reddito, dalla razza, dal genere, e così via. Puoi attuare politiche come il controllo degli affitti, anche se sul lungo periodo non penso sia una vera soluzione, dal momento che c’è sempre il mercato di mezzo. Dovremmo de-mercificare davvero il comparto abitativo. Storicamente, questo è stato fatto con la creazione di case popolari, dove le p/ersone avevano diritti residenziali indipendenti dal mercato – il diritto a una casa, senza avere il diritto a comprarla o a venderla. Sotto il neoliberismo c’è stato detto che si trattava di un sistema inefficiente. Ma ora sappiamo cosa succede quando si seguono le regole neoliberiste. Il mercato potrebbe avere qualche ruolo in un’economia socialista? Non ho nessun problema col fatto che ci sia un mercato dei vestiti usati, per esempio. I problemi insorgono quando c’è una posizione sbilanciata all’interno del mercato. Marx era in disaccordo con le grandi concentrazioni di potere e con chi ne deteneva il controllo. Se guardi il posto occupato da Blackstone nel mercato immobiliare, ti accorgi che ne controlla troppo. Un sacco di gente parla del tasso di profitto, ma è il controllo su un’enorme quantità di profitto che in realtà decide quali sono i principali attori del sistema capitalistico. Dato che i grandi capitali sono ciò che Marx definiva come concentrazioni mostruose di capitale, gli attori principali possono usare questa mole gigantesca di soldi per corrompere i politici, per dominare i media, per comprarsi le elezioni, e così via. Per dare vita a una democrazia socialista, dobbiamo demolire queste enormi concentrazioni di potere. Questo significa che diventa cruciale anche rompere giganti come Facebook e Google. In Catalogna c’è un grande movimento sociale favorevole all’indipendenza. Ma in tutto ciò, c’è una domanda che sembra passare sotto traccia: cosa significa davvero sovranità? Il problema della sovranità è: lo stato controlla la finanza, o è la finanza a controllare lo stato? In Grecia, ad esempio, è evidente che siamo nel secondo caso – e dunque la sovranità statale è decisamente irrilevante, una piccola parte delle relazioni di potere che governano la nazione. Caso interessante, lo stesso viene detto anche degli Stati Uniti. Quando Bill Clinton è stato eletto nel 1992, ha stilato un programma economico. Il suo consigliere politico Robert Rubin – che veniva dalla Goldman Sachs, e dopo è diventato segretario del tesoro – gli disse: «Non lo puoi attuare». Clinton: «Perché no?». E Rubin: «Perché gli azionisti non te lo permetteranno». Allora Clinton, presumibilmente, rispose: «Vuoi dire che la mia intera politica economica e qualsiasi chance per la rielezione dipendono da una manica di fottuti operatori di borsa?». E Rubin rispose di sì. Allora Clinton implementò misure neoliberiste come il Nafta e nuove misure di welfare, e non fece quello che aveva promesso – rendere gratuito il sistema sanitario. Credo che ci troviamo in una situazione in cui sono i soldi a comandare, non i politici. E così, per tornare alla questione della sovranità, quando immagini di poter diventare autonomo da altre giurisdizioni, resti comunque col problema di come affrontare il potere degli azionisti e il potere del capitale finanziario. Non sono sicuro che ci sia una vera autonomia politica nell’essere semplicemente politicamente indipendenti.

Guardando agli Stati uniti, cosa pensi dell’ascesa del socialismo democratico, e cosa pensi che significhi per i movimenti sociali in generale? Fino a ora abbiamo avuto un solo partito – il partito di Wall Street – con un’ala democratica e una repubblicana. Hillary Clinton era una creatura di Wall Street, e uno degli errori cruciali che ha commesso prima delle elezioni è stato partecipare ad alcuni incontri alla Goldman Sachs con un cachet di 250.000 dollari a volta. Ho scritto alla Goldman Sachs dicendo che avrei parlato da loro per 200.000 dollari, ma non penso che volessero un mio discorso. Hillary ha preso un sacco di soldi, e tutti lo sapevano. Il leader democratico al Senato, Chuck Schumer, ha preso finanziamenti da Wall Street più di chiunque altro. Il Partito Democratico è il partito di Wall Street e lo è stato sin da quando ha perso la propria base nei sindacati negli anni Ottanta. All’interno del Partito democratico c’è un movimento che sostiene che dovremmo provare a liberarci dei legami con Wall Street – Bernie Sanders dice che abbiamo bisogno di una rivoluzione politica. Sembrerebbe che due terzi del partito pensano che abbiamo bisogno del supporto di Wall Street, e un terzo che non ne abbiamo bisogno. Ma sta aumentando la consapevolezza del fatto che, in realtà, il problema è Wall Street. A livello popolare, sarebbe interessante vedere fin dove si spinge. Il futuro delle mobilitazioni politiche dipenderà moltissimo dal livello di radicalità delle nuove generazioni. In un contesto post-Guerra Fredda, i giovani non capiscono tutto questo parlare anti-comunista di quanto sia terribile il socialismo. La destra sta provando a convincerli del contrario, ma quando le giovani generazioni sentono dire che socialismo significa abolire il debito studentesco e avere una sanità pubblica e gratuita, è probabile che pensino che sia una cosa buona: «Se il socialismo è questo, allora sarò un socialista». Credo che sia questo il livello a cui siamo giunti. Non c’è nessun dubbio che l’ascesa di Donald Trump abbia spinto molte persone all’azione politica, così come l’hanno fatto gli attacchi al diritto all’aborto e alle donne in generale. Non sono certo che sia un punto di svolta, ma sicuramente c’è un po’ di resistenza. Credo che alle prossime elezioni vedremo una svolta a sinistra, ma il partito di Wall Street sarà ancora lì. *David Harvey è professore di antropologia e geografia al Graduate Center of the City University of New York. Il suo ultimo libro è The Ways of the World. Arnau Barquer è redattore del magazine spagnolo Catarsi. Questo articolo è stato pubblicato su Jacobinmag.com. La traduzione è di Gaia Benzi.
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venerdì 26 luglio 2019


 
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