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Ikea: di precarietà e virtù.

0. Impoverimento generalizzato e Jobs Act Già dal 1948, e nell’anno precedente durante i lavori preparatori che avrebbero portato alla promulgazione della costituzione da parte di Enrico De Nicola – il filomonarca eletto Capo Provvisorio dello Stato – era chiaro come le parole dell’art.1 “L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro” sarebbero state terreno di conflitto. Ora più che mai, alle porte del decimo anno di crisi, la percentuale di disoccupazione giovanile è ancorata al 43%, la sperimentazione del lavoro volontario istituzionalizzato grazie ad Expo e la definitiva precarizzazione avvenuta a seguito del Jobs Act, dipingono un quadro dove la dizione dell’art.1 risulta evidentemente farsesca e necessita di una rilettura radicale.

La vertenza aperta all’Ikea si inserisce perfettamente in questo quadro di impoverimento generalizzato, di precarietà selvaggia, di dequalificazione e alienazione delle soggettività dei lavoratori. Abbiamo chiesto direttamente ai lavoratori le prime impressioni sulle forme di lotta praticate e più in generale come siano mutate, nonostante fossero già precari prima dei recenti tagli, aspettative e tenore di vita. Ma procediamo con ordine. 1. I fatti: il mancato rinnovo del contratto integrativo in via unilaterale e la minaccia della disdetta del contratto aziendale Ikea è una multinazionale svedese con sede nei Paesi Bassi, specializzata nella vendita di mobili, complementi d’arredo e oggettistica per la casa. Nel 2013 il gruppo risultava avere 151.000 collaboratori con un management composto per il 47% da donne e un fatturato annuale di oltre 29 miliardi. Il 6 giugno dopo aver ricevuto la comunicazione del mancato rinnovo del CIA – il contratto sulle integrazioni, oggetto principale della vertenza – i lavoratori degli store Ikea dislocati su tutto il territorio nazionale hanno abbandonato i loro posti di lavoro e spontaneamente hanno deciso di scioperare. La giornata di lotta, a Bologna, ha visto 150 lavoratori dei 260 unirsi in sciopero. Nel frattempo, a Bari, Genova, Brescia, Padova, Napoli, Milano, Roma e negli altri store italiani, si sono svolte alcune assemblee indette dai sindacati, in particolare i confederali Cgil, Cisl, Uil e il sindacato di base Usb, il cui esito è stata la decisione di convocare una giornata di sciopero nazionale in data 11 luglio, giorno in cui sono scesi in lotta seimila dipendenti dei 21 punti vendita di Ikea presenti in tutta Italia. In quella giornata, nel territorio bolognese, dove i lavoratori hanno deciso di cominciare lo sciopero un giorno prima rispetto alla data prefissata, la mobilitazione ha costretto Ikea a tenere chiuso il magazzino dove i clienti ritirano gli acquisti più voluminosi e a “chiamare alle armi” i manager e i responsabili dei vari settori, costringendoli a rientrare dalle ferie. Nel corso delle trattative che hanno seguito gli scioperi a singhiozzo, Ikea ha ribadito l’assoluta indisponibilità a recedere dalle loro richieste di abbattimento delle maggiorazioni domenicali/festive e dal superamento del premio aziendale fisso. Così i lavoratori hanno deciso, accompagnati dai sindacati, di riproporre lo sciopero a cavallo di ferragosto, questa volta nella forma di cinque giornate di mobilitazione, il cui esito al momento – poco a dire il vero – è stato l’impegno da parte di Ikea, su proposta della segreteria nazionale della Cgil, di aggiornare il tavolo di trattativa ai primi giorni di settembre, mese in cui il CIA dovrebbe essere rinnovato, pena la perdita di efficacia nei tre mesi successivi. Un lavoratore intervistato, che preferisce restare nell’anonimato ci racconta come “il problema nasce dal mancato rinnovo del contratto integrativo, che per noi lavoratori di Ikea significa un sacco di soldini: dentro ci sono i benefit legati a maggiorazioni domenicali, festivi, premio di produzione, premio aziendale. Sono i 50-100 euro ogni mese che a fine anno sono soldi per chi lavora come me 24 ore a settimana. La posizione dell’azienda tutt’oggi sembra essere irremovibile. Loro sostengono che il costo del lavoro è troppo alto – cozza con la produttività – quando, invece, sappiamo che stiamo parlando forse della più grande multinazionale del mondo, e piangono miseria. In questi 11 anni ci hanno fatto il lavaggio del cervello sul luogo di lavoro come ambiente familiare”. Di fatto, con il tentativo di abolizione unilaterale del CIA, viene eliminata la possibilità di organizzare la propria esistenza, dal momento che il lavoro domenicale viene equiparato, e retribuito, come un qualsiasi altro giorno della settimana, e la divisione feriale/festivo sparisce. La retribuzione delle ore di straordinario, che per alcuni è del 30%, per altri del 70%, e per i più fortunati del 130%, si appiattisce ad una quota flessibile che varia tra il 40 ed il 70%. Questa imposizione porterebbe lavoratori e lavoratrici a doversi adeguare non solo ad un vertiginoso abbassamento del tenore di vita, azzerando le prospettive future e le aspettative nella “grande famiglia Ikea”, ma anche a cementificare l’ideologia e l’utilizzo dei soggetti impoveriti dalla crisi come pedine da prendere e gettare ad uso e consumo del padrone. Così dicendo potrebbe sembrare che la svolta autoritaria di Ikea degli ultimi tre mesi sia in totale contraddizione rispetto alle politiche d’occupazione perseguite negli anni precedenti dal colosso svedese, ma così non è. I principi sono sempre rimasti i medesimi: dequalificazione delle competenze, rese generiche, in modo da rendere tutti sostituibili e “liberi” di scegliere una mansione invece di un’altra, e cristallizzazione di rapporti lavorativi promiscui basati su una sorta di legame aziendale-familiare.

2. Forme di lotta e gabellotti Su tutto il territorio le lotte si sono date in forme eterogenee. Ad esempio, giovedì 11 luglio, giornata rinominata “NoBillyDay”, a Padova circa 100 lavoratori occupavano spontaneamente le scale del negozio e parte del parcheggio. Mentre a Bologna i lavoratori allestivano il presidio comunicativo – che ad agosto sarebbe durato per cinque giorni consecutivi –, ad Afragola (NA) la mobilitazione è riuscita a far chiudere l’impianto per tre giorni grazie alla forte partecipazione e all’astensione dal luogo di lavoro. La giornata di lotta si è data in tutta Italia, dal milanese ai punti vendita di Roma ad Anagnina e Buffalotta,dove lavorano circa 900 persone. Qui, i lavoratori hanno improvvisato flash mob fuori dai punti vendita, tutti rigorosamente in maglietta gialla Ikea, il colore del brand, invitando i clienti a rinunciare agli acquisti per l’intera giornata. Un nodo critico che rischia di limitare la potenza della mobilitazione è la possibilità per Ikea –grazie ai gabellotti delle agenzie interinali che attingono dall’infinito bacino di precari – di assumere ad hoc personale, mascherando così una palese condotta antisindacale sotto le mentite spoglie di “esigenze di copertura ferie personale” e rafforzando la sua presa sul manico del coltello. Durante le giornate di mobilitazione di agosto, i lavoratori bolognesi ci confermano che “ci sono 35 interinali assunti ad hoc”, i quali – avendo avuto una formazione lampo di 24 h – “al massimo possono fare il cash and carry”. Personale d’emergenza che soddisfa un’esigenza istantanea di Ikea, ma che agli occhi dei lavoratori si mostra come “ 30 poveri schiavi del sistema: gli ultimi, noi siamo i penultimi”; “se io lavoro per 4 soldi loro lavorano per 3 soldi, senza un contratto, tra due mesi o al 30 di agosto saranno cacciati”. È chiaro come l’astensione dalla mobilitazione sposti i rapporti di forza a vantaggio del padrone. Da questa gestione dello sciopero da parte di Ikea seguono due importanti conseguenze: da una parte, l’attività di crumiraggio istituzionalizzato rischia di demoralizzare i lavoratori in lotta e, dall’altra, mette in difficoltà i rapporti di solidarietà tra lavoratori di una stessa categoria, “perché per ogni giornata di sciopero, perdiamo la giornata lavorativa”. 3. Soggettività, dequalificazione e aspettative decrescenti La composizione dei lavoratori dello store bolognese è eterogenea, composta in particolare da uomini e donne meridionali dai 35 anni in su, ma come ci viene raccontato la tattica di Ikea negli anni è stata “ assumere prevalentemente quei lavoratori che trovavano nell’occupazione part-time la possibilità di alternare vita privata e orario lavorativo: studenti, madri di famiglia, musicisti, artisti”, mettendo in luce come anche dentro i megastore siano i saperi e l’intelligenza collettiva ad essere mercificati e sfruttati. Sfruttamento aziendale, organizzato scientificamente e programmato nel tempo, secondo uno schema economico che si dà anche con “l’eccessivo uso della mobilità interna”, la quale dequalifica quotidianamente la soggettività, dal momento che come ci dice un lavoratore: “non abbiamo mansioni predefinite, ma siamo costretti ad uno schizofrenico cambio di ruolo senza preavviso: da cuoco a magazziniere, da barman a venditore e da montacarichi e montatore”, vedendosi così alienati dal prodotto del proprio lavoro e delle proprie capacità. Ikea, come ci dicono i lavoratori – “fino a ieri eravamo marginalmente orgogliosi, pensavamo di lavorare per un’azienda che si difende, ci difende, ci vuole bene e che ti offre un contratto a tempo indeterminato fai tutti i tuoi calcoli. Ma, da aprile, si chiudono i rubinetti” – è un animale bifronte che sui soggetti impoveriti dalla crisi si conserva e riproduce, e che dalla crisi stessa trae vantaggio mentre a pagarne i costi sono le fasce precarie. E quando le aspettative di un miglioramento di vita, se lasciate al libero arbitrio del padrone, restano solo delle promesse tradite (“la vita va avanti, i costi aumentano, i 900 euro sono sempre quelli.. ti aspetti che arrivato al 2015 ti dicano che da domani ti daranno 10 euro in più perché la vita costa di più. No! Ti tolgono 150-200 euro al mese, e io come che cazzo devo campare?”), alcuni, come “una mia collega di Ikea”, sono costretti a “dare disdetta all’appartamento perché con un part-time, che da settembre guadagnerà 700 euro al mese, e ha un affitto di 680 e, voi studenti me lo insegnate, ma mi dici come si fa?”

4. Prospettive di lotta A questo punto sorge una questione preliminare: quella del “noi”. Questione che non risolveremo qui, ma che sono gli stessi lavoratori a porre come elemento di ragionamento: “Domani, se io adesso accetto una condizione di lavoro a 700 euro, chi verrà dopo, a quanto lavorerà, a 500 euro?” Un noi che non prevede un soggetto specifico, ma una generazione di precari. Un noi che, per essere analizzato, deve guardare alla generalizzazione più che alla parcellizzazione delle soggettività: un noi che include al suo interno coloro che dalla crisi sono stati impoveriti, nella crisi vivono, e nella stessa vedono una contraddizione da agire, perché quei 500 euro sono una minaccia per tutti. Ora concretamente, ci dicono i lavoratori, il tentativo è di creare le basi per un coordinamento nazionale di lotta Ikea. Tra quelli con cui abbiamo parlato, poco o nulla si sa di un’altra grande lotta all’Ikea, sviluppatasi tra il 2012 e il 2013 nel più grande magazzino d’Europa, quello collocato all’interporto di Piacenza. Protagonisti ne sono stati i facchini, riuscendo a raccogliere attorno a sé la convergenza di studenti e precari (in quei lunghi mesi ci sono stati molti picchetti di solidarietà davanti ai punti vendita in giro per l’Italia, il più significativo proprio davanti allo store di Bologna, con ripetute cariche della polizia). La non conoscenza di quella lotta dice molto della segmentazione e compartimentazione della forza lavoro, a Ikea e nelle grandi imprese contemporanee. E dice molto, a noi, della necessità di rompere questi processi di divisione e trovare le forme di generalizzare conflitti e mobilitazioni. Dobbiamo conoscerci, scambiare impressioni e pratiche di lotta, contagiarci e scambiare i saperi che sui diversi territori mettiamo in campo, perché lo spazio della libertà è lo spazio politico che insieme sappiamo conquistare. (di GIUSEPPE CASALE e MARCO CESARINI)
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lunedì 24 agosto 2015


 
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