Antibiotici negli allevamenti: è solo uno dei dannosi effetti collaterali. La posizione di CIWF Italia Onlus.
Il tema degli antibiotici negli allevamenti, presentato in questo articolo pubblicato su Il Fatto Alimentare, ha sollevato numerosi commenti. In particolare, riportiamo il pensiero di Annamaria Pisapia, direttrice di CIWF Italia Onlus, l’associazione per il benessere degli animali da allevamento. A seguire pubblicheremo in un altro articolo la risposta di Lara Sanfrancesco, direttrice di Unaitalia, l’unione nazionale filiere alimentari carni e uova.
La somministrazione di antibiotici negli allevamenti di pollo è molto spesso necessaria a causa delle alte densità di animali, della selezione genetica operata per favorire una crescita abnorme e delle condizioni ambientali scadenti. L’antibiotico resistenza causata dall’eccessivo consumo di antibiotici è un gravissimo problema a livello globale, che costa all’Italia dai 5000 ai 7000 decessi e 100 milioni di euro ogni anno. L’uso eccessivo di antibiotici negli allevamenti è solo uno degli aspetti che dimostra l’insostenibilità degli allevamenti intensivi. In Italia, secondo i dati FAOSTAT, vengono allevati ogni anno 500 milioni di polli da carne. Circa l’80% viene allevato intensivamente, vale a dire in capannoni che possono contenere fino a 40.000 animali. Oggi la legge italiana, in linea con la normativa europea, consente di allevare a una densità massima di “33 chilogrammi di peso vivo a metro quadro”(15/16 polli per metro quadro), con la possibilità di richiedere deroghe per aumentare la densità fino a 39 o addirittura 42 chili per metro quadro (20/21 animali per metro quadro). Per ottenere una deroga, che può essere consentita con la procedura del “silenzio assenso”, è sufficiente installare un buon sistema di ventilazione e monitorare alcuni parametri ambientali.
Se da un lato è vero, come dichiara Leonardo James Vinco, responsabile del centro di referenza per il benessere in avicoltura all’Istituto Zooprofilattico Sperimentale della Lombardia e dell’Emilia Romagna, nell’articolo di Fabio di Todaro, che “a incidere [sul benessere animale] sono anche illuminazione, ventilazione e temperatura dell’ambiente, oltre alle condizioni della lettiera”, è però necessario considerare che a densità tanto elevate è impossibile parlare di benessere animale. Sono anche questi i polli “allevati a terra”, di cui troviamo indicazione spesso sulle etichette-animali a cui manca letteralmente lo spazio per muoversi. La pratica dello “sfoltimento” consiste nel portare via dall’allevamento e macellare circa il 30% degli animali qualche giorno prima che l’intero gruppo raggiunga il peso di macellazione. Questo permette di allevare un numero maggiore di polli all’inizio, senza superare mai il numero massimo di chili al metro quadro previsti dalla normativa. L’operazione di sfoltimento provoca un grande stress agli animali, dovuto soprattutto alla rimozione del mangime, al disturbo causato dal personale che entra nel capannone e alla manipolazione dei polli.
Anche la selezione genetica influisce pesantemente sul benessere dei polli. La maggioranza dei polli da carne è costituita da razze selezionate per crescere rapidamente in maniera innaturale: un pollo può raggiungere il peso adatto alla macellazione anche in 39 giorni. Ma questi animali sono destinati fin dalla nascita a una vita di sofferenze. La crescita abnorme, soprattutto nella zona del petto, causa problemi cardiorespiratori, deambulatori, zoppìe e anche la morte. Per capire l’importanza del tasso di crescita di questi polli basti pensare che, se si trattasse di un bambino, a una settimana dalla nascita, in proporzione, peserebbe 18 chili. L’uso eccessivo di antibiotici – A densità così alte e in condizioni fisiche intrinsecamente debilitate, i polli sono molto spesso immunodepressi e si ammalano con facilità. In un capannone con decine di migliaia di animali è sufficiente che uno solo sviluppi una malattia perché tutto il gruppo debba essere trattato, o perché già ammalato o perché con ogni probabilità si ammalerebbe a breve.
Sebbene la sospensione di trattamenti farmacologici prima della macellazione garantisca che nella carne non vi siano residui di antibiotici, va però ricordato che il pericolo in questo caso è la selezione di batteri resistenti agli antibiotici che possono diffondersi a partire dagli allevamenti, in primis attraverso gli operatori degli allevamenti stessi. L’allarme su questo argomento è stato lanciato recentemente dagli specialisti della Simit secondo cui “In Italia sono stimati 5000-7000 decessi annui riconducibili ad infezioni nosocomiali (dovuti ad antibioticoresistenza ndr), con un costo annuo superiore a 100 milioni di euro”. Riguardo al consumo di antibiotici, in Italia l’uso in campo veterinario è in calo negli ultimi anni, ma il consumo italiano resta fra i più alti in Europa e la percentuale di antibiotici venduti destinati agli animali da allevamento in Italia è allarmante: si tratta del 71% di quelli venduti secondo i dati del rapporto ECDC/ EFSA/ EMA del 2015. Quello dell’uso eccessivo di antibiotici è solo uno degli effetti nefasti degli allevamenti intensivi che spingono gli animali al limite delle loro possibilità fisiologiche e provocano loro enormi sofferenze. Secondo la FAO,“ Sostenibilità significa assicurare i diritti e il benessere degli esseri umani senza esaurire o diminuire la capacità degli ecosistemi della terra di sostenere la vita, o a danno di altri esseri viventi”. Il problema vero non è l’uso di antibiotici in sé, ma l’allevamento intensivo, che minaccia la nostra salute, l’ambiente e la sostenibilità alimentare sul nostro pianeta. È su questo che urge dare un giro di vite.
Annamaria Pisapia (direttrice di CIWF Italia Onlus)
(Ndr. Quella che segue è la "risposta d'ufficio" della direttrice dell'associazione degli allevatori avicoli italiani).- "Non tutti i mali arrivano dagli allevamenti intensivi: la risposta di Unaitalia alle critiche di CIWF". Nella sua lettera la direttrice di CIWF Italia tocca diverse tematiche su cui sono doverose alcune precisazioni. L’antibiotico resistenza (AMR), è un fenomeno globale, divenuto un vero e proprio allarme negli ultimi anni, al punto che numerose autorità sanitarie internazionali, a partire dall’OMS, stanno mettendo in atto campagne massicce di sensibilizzazione ad un corretto uso dell’antibiotico. Il dato richiamato nella lettera del direttore di CIWF relativo a “5000-7000 decessi annui riconducibili ad infezioni nosocomiali” si riferisce ad infezioni contratte negli ospedali, nosocomiali per l’appunto, causate da batteri divenuti resistenti ai comuni farmaci e che sono il più preoccupante effetto del massiccio impiego di antibiotici in medicina umana.
Un uso eccessivo, non corretto e non sempre necessario sin dall’età pediatrica di antibiotici sta acuendo sempre di più il fenomeno, aggravato dal fatto che da anni l’industria farmaceutica non immette sul mercato nuove molecole. Questa precisazione è doverosa affinché non passi il messaggio che la causa dell’AMR sia da ricercarsi negli allevamenti intensivi, eliminati i quali, avremmo risolto il problema. Purtroppo non è così. In zootecnia si fa ricorso all’uso del farmaco per gestire le patologie che affliggono gli animali che, come avviene per gli uomini, si ammalano e vanno curati. Come evidenziato nell’articolo di Fabio Todaro sul Il Fatto Alimentare, esistono norme molto severe e controlli accurati sull’uso dei farmaci in avicoltura che garantiscono la totale sicurezza del consumatore. Il settore avicolo sta già facendo la propria parte per contribuire alla lotta al fenomeno dell’antibiotico resistenza , mettendo in campo tutte le sue migliori risorse per dare risposte concrete ed efficaci.
La ricerca e la selezione delle razze, così come avviene da secoli in agricoltura, hanno portato a migliorare le performance del pollo che oggi cresce non in modo abnorme ma in maniera conforme al proprio patrimonio genetico. La ricerca ha come obiettivo quello di selezionare le razze più forti, che convertano in maniera ottimale l’alimento e che si ammalino meno. È intuitivo che non avrebbe senso allevare polli che facilmente si ammalino, perché ciò si tradurrebbe in una inefficienza produttiva: le conoscenze veterinarie hanno dimostrato come animali allevati in condizioni ottimali di benessere garantiscano rese migliori e costi più contenuti. Questi principi sono oramai stati assimilati dalle filiere che ne fanno il proprio fondamento.
Il settore avicolo italiano è caratterizzato da una totale autosufficienza produttiva e da un modello di filiera integrata unico al mondo ed investe ogni anno il 7% del proprio fatturato in ricerca ed innovazione, a fronte di una media, già di per sé alta, del 2,5% dell’intero settore agroalimentare. L’allevamento intensivo non è una minaccia, se fatto bene. Per questo crediamo che il modello europeo che è quello con le normative più rigorose ed evolute in termini di sicurezza alimentare e benessere animale dovrebbe essere difeso ed esportato anche fuori dai nostri confini. Va senza dubbio dato atto che siamo giunti a questo livello di eccellenza anche grazie al ruolo di stimolo e sensibilizzazione verso i temi del benessere animale di organizzazioni come CIWF. Il percorso è in continua evoluzione e probabilmente tra vent’anni altri grandi passi avanti saranno stati fatti.
La richiesta di carni avicole nel mondo è in continua crescita, in particolare nei Paesi in via di sviluppo e nelle fasce di popolazione più deboli, che aumentando progressivamente la propria capacità di spesa, vogliono avere maggiore accesso a proteine nobili, ad alto valore biologico. Questa domanda potrà essere soddisfatta solo con produzioni su larga scala e ad elevato contenuto tecnologico che siano al contempo sane, sicure e sostenibili. La grande sfida cui tutti saremo chiamati è quella di rendere ancora più efficiente il modello produttivo, trovando il giusto equilibrio tra la domanda crescente di proteine animali, standard sempre più elevati di sicurezza alimentare, l’imprescindibile e doverosa attenzione al benessere animale e, non ultima, la sostenibilità economica delle produzioni. L’Europa, Italia in testa, ha i costi di produzione più alti al mondo, generati anche dal rispetto di regole e standard produttivi molto più severi dei nostri competitors mondiali. In uno scenario globale, con la concorrenza fortissima di players forti come USA e Brasile, dovremmo difendere modelli produttivi autosufficienti e virtuosi come quello italiano anziché auspicarne il declino. A meno che non si preferisca divenire importatori netti anche di carni bianche, una delle poche produzioni totalmente made in italy che ci rimangono.
Lara Sanfrancesco (direttrice Unaitalia)
www.ilfattoalimentare.it
martedì 26 maggio 2015
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