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Ferguson e oltre: omicidi legittimi e morti premature nel ghetto americano.

Secondo un recente rapporto dell’FBI relativo ai casi di “omicidio legittimo” (justifiable homicide) riportati annualmente da un campione dei dipartimenti di polizia della nazione, tra il 2005 e il 2012 i poliziotti americani hanno “legittimamente” ucciso oltre 400 civili l’anno. Se poi si osserva la composizione razziale di questi “incidenti” si scopre che in media due afroamericani la settimana hanno perso la vita per mano di agenti di polizia bianchi. E si tratta soprattutto di giovani e adolescenti: secondo il rapporto, il 18% degli afroamericani deceduti durante incontri con la polizia aveva meno di 21 anni (contro l’8.7% dei bianchi). Oscar Grant, eseguito a freddo con un colpo alla schiena da un agente di polizia la notte di capodanno del 2009, mentre era ammanettato in una stazione della metropolitana di Oakland, ne aveva ventidue. Mentre Sean Bell, crivellato di colpi dagli agenti del NYPD la sera del 25 novembre 2006, dopo che aveva festeggiato con amici l’addio al celibato in un locale di New York, ne aveva ventitré.

Il caso del diciottenne afroamericano Michael Brown, ucciso il 9 agosto 2014 a Ferguson, un sobborgo segregato di Saint Louis, Missouri, da un poliziotto bianco mentre aveva le mani alzate, non è quindi un evento eccezionale o anche solo insolito. Non lo è, poiché gli “incontri” con la polizia sperimentati dai giovani afroamericani per le strade dei ghetti urbani e suburbani degli Stati Uniti avvengono quasi sistematicamente secondo le modalità (anche se non sempre con le conseguenze) osservate a Ferguson, New York e Oakland. Sono incontri temuti perché l’onere della prova è di fatto a carico del sospettato e non della polizia, l’aspettativa di subire abusi verbali e fisici è costante, e infine la propensione della polizia ad arrestare giovani afroamericani (e latini) con un pretesto qualsiasi, o perfino a falsificare prove per costruire accuse è ben documentata. Nonostante tre decenni di retorica – accademica, mediatica, politica – sulla polizia di comunità (community policing) e l’integrazione razziale all’interno dei dipartimenti, la polizia continua a funzionare (e ad essere percepita) nei quartieri poveri e segregati delle città americane come una forza di occupazione, come un esercito ad alta tecnologia che interviene – in modo sporadico e imprevedibile – a imporre, spesso con la violenza, un ordine arbitrario. Ma sarebbe riduttivo cercare una spiegazione di quanto è avvenuto a Ferguson (e avviene quotidianamente in altre centinaia di località americane) solo nel funzionamento della polizia. La polizia è in effetti l’avamposto operativo di una più ampia e complessa macchina penale e repressiva che è andata progressivamente colonizzando lo spazio pubblico americano – dalle scuole ai campus universitari, dai centri urbani alle gated communities – guadagnando terreno per oltre quarant’anni grazie alla retorica della guerra alla criminalità e alla droga prima, e della guerra al terrorismo poi. Di questo stato di guerra permanente, iniziato nei primi anni settanta e tuttora in corso, la polizia ha risentito profondamente: dalla guerra alla criminalità degli anni ottanta essa ha ricevuto consistenti iniezioni di personale e di fondi federali; dalla guerra alla droga ha tratto ingenti benefici finanziari, dal momento che una legge del 1984 consente ai dipartimenti di polizia di trattenere l’80% dei proventi derivanti da sequestri di proprietà e di altri beni legati al traffico di stupefacenti; infine, dalla guerra al terrorismo, e in particolare dalla smobilitazione delle truppe in Iraq e Afghanistan, la polizia ha ricevuto ingenti dotazioni tecnologiche – dai visori notturni ai droni sempre più spesso impiegati nella sorveglianza dei centri urbani, dai mezzi corazzati leggeri agli armamenti. Il risultato è stato una complessiva militarizzazione delle forze di polizia, i cui dipartimenti impiegano ormai normalmente (ma solo nei quartieri “sensibili”) gli SWAT teams per eseguire arresti, perquisizioni o anche solo verifiche sul domicilio di ex detenuti. Questa pericolosa tendenza è resa poi ancora più problematica da due circostanze particolarmente evidenti degli Stati Uniti: la prima è l’incremento verticale della discrezionalità della polizia, soprattutto in seguito alla progressiva diffusione del “modello New York” (la cosiddetta tolleranza zero) – e in particolare della pratica dello stop and frisk, il fermo per strada di persone “sospette” con qualsiasi pretesto, per effettuare controlli e perquisizioni; la seconda è il carattere profondamente segregato del tessuto urbano statunitense, che si riflette in una radicale divaricazione nei metodi, nel comportamento, e dunque nella percezione della polizia tra i quartieri middle class e i ghetti urbani. La polizia è senz’altro uno dei principali fautori di quest’ordine urbano segregato, i cui confini diventano immediatamente visibili ogni volta che essa interviene, da qualsiasi lato del confine questo avvenga. Ma la morte di Michael Brown e delle centinaia di altri cittadini, in gran parte afroamericani e latini, “legittimamente uccisi” ogni anno per le strade dei ghetti statunitensi, non si può comprendere solo osservando le trasformazioni della polizia. Questa è soltanto un ingranaggio, per quanto essenziale, dell’enorme macchina penale e di controllo che le élite economiche e politiche americane – supportate da media sensazionalistici e da un’opinione pubblica stordita da periodiche ondate di panico morale – hanno dispiegato dopo la rivoluzione dei diritti civili degli anni sessanta con l’obbiettivo di presidiare, attraverso la regolazione punitiva dei poveri urbani, la struttura delle disuguaglianze di classe e razziali esistenti.

A diciotto anni, Michael Brown aveva faticosamente ottenuto il diploma da una high school pubblica di Saint Louis, una scuola per il 98% afroamericana, in cui nel 2012 il 27% degli studenti aveva subito una sospensione disciplinare per dieci giorni o più, e il 22% aveva smesso di frequentare. Accanto alla polizia, e in sempre più stretta collaborazione con questa, sono proprio le scuole pubbliche urbane a funzionare da secondo importante ingranaggio – o forse sarebbe più appropriato parlare di “cinghia di trasmissione” – della macchina penale che ha ucciso Michael Brown e tanti altri. Segregate quanto i quartieri desolati in cui sorgono, le scuole pubbliche urbane sono diventate in molti casi una sorta di anticamera carceraria, enormi centri di smistamento la cui principale missione è preservare l’ordine mediante l’identificazione precoce – e la punizione, sempre più spesso con il diretto intervento della polizia e perfino con periodi di detenzione all’interno degli edifici scolastici – dei soggetti “a rischio”. La chiara affinità elettiva tra scuole e prigioni nei ghetti americani si misura soprattutto dalla crescente somiglianza architettonica e organizzativa tra le due istituzioni: dall’obbligo delle uniformi scolastiche (per prevenire l’esibizione di colori legati alle gang) alla presenza costante di macchine della polizia all’entrata e all’uscita, fino agli onnipresenti metal detector. Poi c’è la prigione vera e propria, enorme deposito per lo stoccaggio e il riciclaggio dell’umanità in eccesso che tenta di sopravvivere come può nelle aree di segregazione urbana come Ferguson, Missouri. L’arcipelago carcerario statunitense, decuplicato per estensione e capienza nel corso del trentennio 1980-2010, costituisce statisticamente la destinazione d’obbligo per 1/3 dei giovani afroamericani di età compresa tra i diciotto e i trentacinque anni – la fascia di età a cui appartenevano Michael Brown, Oscar Grant e Sean Bell. In questa enorme colonia penale di 2.2 milioni di persone (più della metà delle quali afroamericane e latine) i detenuti sperimentano ulteriore segregazione, violenza e abusi; accumulano ulteriori svantaggi sul mercato del lavoro, per l’assenza di qualsiasi opportunità formativa in prigione; vedono aggravarsi le loro sofferenze fisiche e psicologiche (un terzo dei detenuti soffre di patologie mentali, un altro terzo di patologie fisiche croniche come l’ipertensione, il diabete o l’AIDS). Ma la morsa della prigione sui ghetti non si ferma qui: ogni giorno negli Stati Uniti circa 1.600 detenuti lasciano le prigioni con qualche decina di dollari e un biglietto dell’autobus in tasca, per essere scaricati nella maggioranza dei casi negli stessi quartieri segregati e degradati dai quali erano stati sequestrati qualche anno prima. Qui si prospetta loro il ritorno alla marginalità sociale nella forma del lavoro a basso salario nei fast food e nei servizi dequalificati, alla povertà estrema nella forma della disoccupazione cronica in assenza di qualsiasi sistema di welfare, o al carcere in seguito a nuovi “incontri” con la polizia o con altre agenzie di controllo. In un contesto del genere, la morte prematura per mano di una polizia violenta è più realisticamente raffrontata alla morte prematura in seguito a crimini di strada (nella relativa indifferenza della stessa polizia), alla violenza di detenuti o guardie carcerarie (per l’ampia fetta di popolazione maschile che sperimenta il carcere), o all’aggravarsi di patologie non curate (a causa dell’assenza di un reale sistema di assistenza sanitaria per i poveri), che non alla morte naturale per vecchiaia.

In un libro recente, l’attivista e studiosa americana Ruth Gilmore definisce il razzismo come “la produzione e lo sfruttamento, sanzionati o tollerati dallo stato, della vulnerabilità a morte prematura da parte di determinati gruppi sociali”. In questo senso, la macchina penale americana – intesa in senso lato come un complesso di istituzioni e pratiche, non necessariamente penali, deputate alla regolazione punitiva delle classi marginali – è un fondamentale catalizzatore di razzismo strutturale. E di questa macchina, non semplicemente di un poliziotto bianco di Ferguson, è rimasto vittima Michael Brown con la sua “morte prematura”. Le mobilitazioni di questi giorni, a Ferguson come nel resto del paese, hanno avuto un impatto rilevante: esse hanno costretto l’opinione pubblica americana a fermarsi a riflettere per un attimo sullo stato della polizia negli Stati Uniti. La timida amministrazione Obama ha ordinato un’inchiesta federale sull’accaduto, mentre il Department of Justice ha già avviato l’indagine e una nuova autopsia, dalla quale risulta che Brown sarebbe stato colpito da sei colpi di pistola, di cui due alla testa: un’esecuzione. Si può prevedere che in seguito all’inchiesta gli organi federali imporranno misure di integrazione razziale all’ultra-segregato dipartimento di polizia di Ferguson, per il 94% bianco in una cittadina per il 67% afroamericana. E tuttavia, lo slittamento semantico degli ultimi giorni, spostando il nucleo del discorso dalla violenza razziale della polizia agli eccessi contro i manifestanti, segnala anche un chiaro tentativo di addomesticare la protesta e spuntarne le armi critiche. Le dichiarazioni di Obama, salutate da più parti come una significativa presa di parola contro la violenza di polizia, si sono in realtà limitate a riaffermare l’incontroverso valore del Primo Emendamento, la tutela della libertà di espressione, piuttosto che condannare la violenza strutturale che si dispiega quotidianamente contro i Michael, gli Sean, gli Oscar e gli altri giovani del ghetto, esposti dalla macchina penale americana a una “morte prematura” sanzionata e tollerata dallo stato. Alessandro De Giorgi Department of Justice Studies San Jose State University, California
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lunedì 18 agosto 2014


 
News

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